Lettera di commiato di don Mauro Evangelisti dalla comunità di Miramare – agosto 2003

Dopo tredici anni

Carissimi,

dopo tredici anni dal mio arrivo in mezzo a voi è giunto il momento di salutarci. Prima di tutto è doveroso spiegare il perché di questo cambio.

La Chiesa propone ogni nove anni una verifica degli incarichi e suggerisce l’avvicendamento delle persone per facilitare il rinnovamento della pastorale. E’ chiaro che nessun prete può rispondere a tutte le esigenze di una comunità. Ne curerà alcune in particolare e altre rimarranno in secondo piano. Così l’alternarsi periodico permette di recuperare gli aspetti della pastorale che hanno ricevuto meno attenzione. Inoltre i limiti personali del sacerdote possono ripercuotersi sul rapporto con la gente. Un prete può incontrare con alcuni e non con altri, che magari faticano a rapportarsi con lui. Così nel tempo viene data a tutti una possibilità di ricevere qualcosa di più attraverso persone diverse.

Già prima della malattia ero convinto della opportunità di questo cambio. Con la malattia le mie risorse si sono ulteriormente ridotte e, per quanto resti vero che la malattia non è tempo perso, ma davanti a Dio è il più prezioso, è altrettanto vero che una parrocchia come questa ha bisogno di presenza. così ho scritto al vescovo, spiegandogli la situazione della parrocchia e la mia, e lui ha capito che era opportuno trovare un nuovo parroco.

Guardando a questi anni passati con voi, mi sento in dovere di ringraziare il Signore e la Chiesa per avermi dato così tanta fiducia i questo incarico. Sento il dovere di ringraziare per quello che ho ricevuto dalla vostra amicizia: mi avete voluto molto bene e l’ho sentito. Non tocca a me dire se io ho voluto bene a voi. Lo sa il Signore. Però di sicuro ho cercato anch’io di esservi amico, con tutte le forze, senza dimenticarmi che dovevo essere anche il vostro pastore e padre nella fede. So comunque di aver mancato in tante cose e in tanti modi. Perdonatemi se qualcuno ha sofferto per causa mia. A volte ho creduto di fare bene e invece ho sbagliato. Altre volte era necessario che andasse così, perché non tutte le sofferenze e le incomprensioni si possono evitare. Vi chiedo perdono per quello che non ho fatto e avrei potuto fare. Se sono stato troppo incerto nell’annunciarvi il Vangelo e se vi ho detto solo quello che poteva piacere di più o che dava meno fastidio. Se certi settori della pastorale non sono stati sviluppati per niente. Se altri non sono stati seguiti abbastanza. Se non ho valorizzato le risorse umane di tutti nell’affidare le responsabilità. Se non ho saputo accogliere abbastanza quello che lo Spirito suscitava in ciascuno. Se non ho saputo stimolare abbastanza la crescita delle persone. Se è mancata una programmazione pastorale vera e propria e questo ha reso più impreciso il lavoro. Se non c’è stato un sufficiente relazionarsi con il territorio e le sue realtà. potremmo continuare ancora, ma forse non serve.

Da tutto questo possiamo ricavare che in questi anni le carenze sono state tante. Non perché si debbano fare per forza cose eclatanti o spettacolari. Ma quante occasioni in più potevamo dare ad altre persone con il nostro impegno?

Noi però crediamo che la Chiesa non è una realtà solamente umana, ma sopratutto divina, e noi in fondo siamo “servi inutili”. quindi siamo certi che comunque il Signore ha lavorato in noi e fra di noi in questi anni, pur attraverso le nostre povertà. Noi siamo una piccola “imbarcazione” condotta dalle correnti della grazia, cioè dalla Parola, dai Sacramenti e dalla Santità della Chiesa. Una parrocchia può essere un po’ “stretta” per chi cerca “cibo” un po’ sostanzioso per la sua fede e spazi più ampi per l’esperienza cristiana. Non è proibito cercare queste cose anche in altre comunità ecclesiali. L’importante è che l’amore per la propria “casa”, per la propria “famiglia”, faccia rifluire tutto a suo vantaggio.

Questo vi volevo dire non per rimanere fermi al passato, ma per guardare avanti, al futuro di questa parrocchia.

Il nuovo parroco è don Giuseppe Vaccarini, ha 45 anni e dopo una esperienza da vice parroco a S. Raffaele di Rimini è stato missionario in Albania per dieci anni. E’ una persona molto preparata e ricca di esperienza umana, spirituale e pastorale. Auguro a lui di avere da voi tutta l’accoglienza, la disponibilità e la corresponsabilità. le cose da fare sono tante e vogliamo invocare per questo la luce e la forza dello Spirito e l’intercessione materna di maria, madre della Chiesa, per lui e per tutti noi. Ma vi prego: non chiedetegli solo di fare delle cose; lasciate soprattutto che sia uomo di Dio.

Mentre vi ringrazio per ogni tipo di collaborazione e di impegno per la parrocchia in questi anni, un grazie a parte va alle Suore per il rapporto di disponibilità discreta e instancabile. Una riconoscenza tutta particolare la devo, e non solo io ma anche voi, a don Gianluca per quello che si è dovuto sobbarcare in questo anno. Un peso ben oltre il dovuto rispetto al suo compito di vice parroco. In questa prova ha dimostrato dia vere non solo le gambe lunghe, ma anche due buone spalle per reggere i pesi che la vita a volte ci mette sopra.

Termino augurando a tutta la Comunità del Sacro Cuore di crescere nella sua identità, per essere, in modo sempre più maturo, lievito che fermenta cristianamente l’ambiente i cui vive. Auguro a tutta la realtà sociale di Miramare di non perdere mai il riferimento ai valori umani e spirituali autentici, senza i quali la convivenza civile non ha fondamento.

Gesù ha detto che non si può mettere mano alla’aratro e poi voltarsi indietro. Questo è quanto viene chiesto a me e anche a voi in questo momento: guardare avanti, costruire il futuro di questa comunità. per questo motivo credo giusto e opportuno per voi, per me e per il nuovo parroco, che io e voi pe run po’ di tempo non ci vediamo. Almeno per un anno. Credetemi, è meglio per tutti.

Vi abbraccio tutti con affetto

Miramare, 30 agosto 2003

Don Mauro Evangelisti

 

La profezia di don Mauro – Omelia del Vescovo per la Messa esequiale in memoria di don Mauro Evangelisti

I vangeli canonici sono quattro – secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni – ma non è affatto né eretico né errato parlare di un “quinto vangelo”.  Il quale però non è da intendersi come un vangelo riportato da qualche amanuense su un antico codice, ma è quel vangelo scritto con il sangue dei martiri, con il sudore dei pastori, con l’audacia dei profeti, con la sapienza dei maestri, con l’umile splendore della “santità della porta accanto”. La vostra presenza così numerosa e palpitante mi dice che tutti noi siamo certi che don Mauro è stato più che un santo prete. E’ stato letteralmente un prete santo. Tutta la sua vita è stata una vera pagina di questo quinto vangelo che i cristiani continuano a scrivere con la loro vita. Ed è proprio per essere fedele al vangelo secondo don Mauro che ritengo che io ora mi fermi subito qua e che ceda la parola a lui stesso. E’ vero: Don Mauro ha scritto pochissimo, e che negli ultimi aveva completamente perso l’uso della parola. Ormai non parlava più con le labbra, ma si era fatto lui stesso parola di vita. E comunque in questi giorni sono venuti alla luce due suoi scritti: una lettera di commiato alla sua comunità di Miramare dell’agosto 2003 – che abbiamo letto ieri sera nella veglia di preghiera a Montetauro  e che al termine di questa celebrazione sarà consegnata in copia a tutti i sacerdoti qui presenti. L’altro testo è una testimonianza data da don Mauro, quando ancora riusciva a comunicare con il puntatore oculare. E’ una testimonianza data ai giovani dei gruppi vocazionali “Ester” e “Samuele”, che risale attorno agli anni 2013-2015. Ve la leggo. E’ l’omelia di don Mauro, non su don Mauro. Ascoltiamo.

“La chiamata del Signore nella mia vita si è manifestata progressivamente e in modi diversi.

Nell’adolescenza, ad esempio, mi è stato chiesto un servizio con i bambini in parrocchia. Io non avevo la più pallida idea di cosa dovevo fare e non mi sarei mai offerto spontaneamente per questa cosa. Ho risposto di sì perché me lo chiedevano e perché c’era bisogno. La mia famiglia mi aveva sempre trasmesso il senso di responsabilità, che concretamente voleva dire non tirarsi indietro e prendere le cose sul serio. In un primo tempo avrei dovuto occuparmi della prima elementare e comunque mi avevano promesso di aiutarmi. Invece quando è stato il momento mi sono trovato da solo e con i ragazzi di terza media. Io avevo solo due anni più di loro. Umanamente la cosa non stava in piedi in nessun modo, ma proprio per questo ho capito in seguito che era il Signore a lavorare dietro le quinte.

Nel frattempo io sentivo il bisogno di formazione per la mia fede, non solo per il servizio che dovevo fare, ma anche perché nelle scuole superiori non volevo nascondermi di fronte alle sfide dei compagni e avevo bisogno di una maggiore solidità personale.

Col tempo, in parrocchia alcuni amici si sono uniti a me e insieme ci aiutavamo anche in questo cammino spirituale. Poi abbiamo cominciato a frequentare il gruppo giovani di un’altra parrocchia più organizzata della nostra e lì abbiamo fatto veramente l’esperienza di un cristianesimo bello e gioioso, l’esperienza di una comunità cristiana piena di passione per il Signore.

Così stavo per finire le scuole superiori e mi rendevo conto che era un momento decisivo per la mia vita. Cominciavo a chiedermi che cosa fare concretamente e dentro sentivo questa passione che spingeva. Ho chiesto aiuto al mio padre spirituale e mi ha fatto capire che non c’era niente in contrario anche per pensare al sacerdozio. in quel momento mi sembrava di essere io a scegliere questa strada. Solo più tardi avrei capito cosa voleva dire “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”.

Perché è il Signore che sceglie prima di noi. Io sentivo che c’era bisogno di qualcuno e io davo la mia disponibilità, ma al mio posto poteva andare anche un altro. Era un po’ come nella vocazione di Isaia. Il Signore diceva “chi manderò?” e io rispondevo “manda me”. Ma il Signore non vuole solo qualcuno in modo generico: vuole proprio ciascuno di noi personalmente.

Così è cominciato il tempo del seminario con la verifica vocazionale. Nel terzo anno di teologia ho avuto un momento molto difficile, perché mi sembrava proprio di non farcela. Lo sbaglio pero era quello di sentire tutto sulle mie spalle e di contare solo sulle mie forze. Poi il Signore mi ha risollevato e sono ripartito, fino all’ordinazione.

A questo punto la chiamata si concretizzava nell’obbedienza alla chiesa, cioè nell’accettare i compiti che mi venivano affidati e la destinazione che il vescovo aveva pensato per me.

Io fremevo un po’, perché mi sembrava che il Vescovo decidesse sulla mia testa, senza sentire anche il mio pensiero. Invece ho sempre potuto dire quello che pensavo e ho capito che la mia visione delle cose era sempre parziale, mentre chi aveva responsabilità più grandi vedeva anche più lontano di me. Nei momenti di difficoltà è sempre stato importante sapere che non ero stato io a voler essere lì, ma che mi ci aveva messo qualcun altro, attraverso il Vescovo.

Quando sono andato in parrocchia, la vocazione si concretizzava nell’ascoltare le necessità e le attese che c’erano, nel far crescere nella fede le persone e la comunità nel suo insieme, nel lavorare in sintonia con la Diocesi e con tutta la Chiesa.

Insomma, la vocazione non si è manifestata una volta sola, ma dopo la prima volta, più importante e decisiva, si è tradotta in un percorso quotidiano.

Ad un certo punto si è verificato l’imprevisto della malattia. All’inizio mi permetteva di fare tutto come prima. Poi le cose si sono complicate ed ero costretto a stare fuori dalla parrocchia troppo tempo per riuscire a fare il mio servizio. Così ho capito che dovevo lasciare il posto a qualcun altro. Ne ho parlato col Vescovo, il quale ha condiviso il mio discernimento e mi ha sollevato da quell’incarico per fare qualcosa di più semplice.

Io non ho mai pensato che la malattia mi sia stata mandata dal Signore, perché Gesù guarisce i malati e manda anche gli apostoli a fare la stessa cosa. Però Gesù ha preso su di sé le nostre sofferenze e ha chiesto a tutti di portare la propria croce ogni giorno. Croce non significa solo malattia, ma anche la fatica del lavoro o dello studio, quella di prendersi le responsabilità del proprio stato di vita e in generale l’impegno per costruire il Regno di Dio.

Portare la croce della malattia è solo una delle possibilità, ma se non c’è questa ce n’è un’altra. Senza croce non c’è vita cristiana. Però il cristiano porta la croce per vincere il male e per realizzare la Pasqua, cioè la pienezza della vita. Per il cristiano la croce è una fatica ma non è tristezza, perché Gesù ha già vinto e gli afflitti sono già stati consolati. Per questo, come dice san Paolo, “Dio ama chi dona con gioia“.

La nostra croce, come quella di Gesù, è un modo di condividere con gli altri.

Come prete ho conosciuto tante situazioni di sofferenza, ma prima potevo al massimo stare vicino a queste persone. Adesso non sono più soltanto vicino ma dentro la loro situazione, per lottare insieme con loro.

Ogni volta che noi celebriamo l’eucaristia ci uniamo a Gesù che dona la sua vita. la malattia e ogni tipo di croce e un modo di dare la vita con Gesù. Se io ho risposto alla mia vocazione penso che sia dovuto proprio alla fedeltà all’eucaristia. Dai 18 anni ho cominciato a frequentarla ogni giorno. Con l’eucaristia naturalmente mi nutrivo anche della parola di Dio.

Se devo dire in che modo Dio fa sentire la chiamata, penso che sia proprio attraverso la comunione con Lui, che ci rende sensibili alle necessità dei fratelli. Dove si vede un bisogno, lì c’è una chiamata. Chiaramente il Signore non chiede tutto alla stessa persona, ma lo chiede alla comunità nel suo insieme. Quindi la vocazione è personale, ma per viverla c’è bisogno della comunità, dove le varie chiamate si sostengono e si integrano reciprocamente. Per me, ad esempio, il Signore ha provveduto questa comunità, che mi accudisce nella mia totale dipendenza dagli altri.

Grazie a loro io posso continuare ad esercitare anche attivamente il mio sacerdozio. Quando poi non sarò più in grado di fare niente, offrirò la mia impotenza come quella di Gesù sulla croce, ma sappiamo che tutto questo è solo un passaggio verso quella “vita in abbondanza” promessa da Gesù.

Il passo del vangelo che adesso sento più vicino è quello in cui Gesù costituisce Pietro come pastore, dopo aver detto che il buon pastore dà la vita per il suo gregge. Poi parla di quando Pietro era giovane e si vestiva da solo per andare dove voleva. Nella vecchiaia invece sarebbe stato qualcun altro a vestirlo e a portarlo dove lui non avrebbe voluto, per seguire Gesù e dare gloria a Dio fino in fondo.

La mia condizione attuale è esattamente la stessa. Dipendo totalmente dagli altri, che mi accompagnano nel tratto della mia vita in cui mi viene chiesto di glorificare Dio in questo modo”.

Don Mauro Evangelisti

Testamento spirituale di don Mauro Evangelisti

Carissimi,

desidero ringraziare con voi il Signore, Dio della vita, per quanto mi ha dato, nella speranza di godere per sempre della sua presenza, “perché eterna è la sua misericordia”.
Un primo grazie va ai miei genitori, che oltre a darmi la vita mi hanno fatto vedere cosa significa prendere le cose sul serio e amare senza risparmiare nessun sacrificio. Da loro ho ricevuto anche la base per il mio cammino di fede.
Grazie a tutti i miei familiari, che con discrezione e fedeltà mi hanno sempre accompagnato, specie nella malattia. Un grazie alla parrocchia dove sono cresciuto e dove ho avuto il dono di conoscere la santità nella persona di Carla Ronci.
Grazie alla mia diocesi, che ha riconosciuto la mia vocazione e l’ha accolta, riservandomi sempre una grande fiducia.
Grazie al vescovo Emilio, che mi ha accolto in seminario e che ogni anno mi faceva gli auguri nel mio onomastico, ricordando che la sua prima omelia era stata proprio nel giorno di san Mauro. Grazie al vescovo Giovanni che mi ha ordinato e inviato nelle prime parrocchie. Grazie al vescovo Mariano che mi ha fatto parroco e quando la salute mi ha fermato, mi ha dato la possibilità di rendermi utile diversamente in un’altra comunità. Un grazie tutto speciale al vescovo Francesco, che oltre alla sua paternità di pastore mi ha fatto dono di una amicizia e di una stima che mi confondono. Grazie ai confratelli sacerdoti con cui ho condiviso il ministero più da vicino e a tutti gli altri, per i numerosi esempi di vocazione vissuta che mi hanno dato. In particolare un grazie a don Fiorenzo, mio confessore e padre spirituale negli ultimi anni, per avermi con tanta carità e saggezza accompagnato incontro al Signore.
Grazie alla parrocchia di Santarcangelo, dove ho vissuto il diaconato e i primi quattro anni come prete. Mi ha insegnato l’accoglienza paziente, attenta e calorosa.
Grazie alla parrocchia di santa Lucia di Savignano, che mi ha stimolato nell’attività con tante iniziative generose.
Grazie in modo tutto speciale alla parrocchia di Miramare, alla quale sono legato per la responsabilità che ne ho portato per tredici anni. Mi ha aiutato ad uscire da me stesso e a mettere al centro le necessità di chi mi sta davanti. La considero la mia famiglia acquisita, non solo per il ruolo che vi ho esercitato, ma anche per le relazioni di amicizia e di affetto che da questo sono nate.
Grazie alla parrocchia di san Mauro, l’ultima in cui ho svolto qualche servizio attivo. vi ho respirato la bellezza semplice dei rapporti che mettono tutti a proprio agio, come a casa propria.
Grazie ai confratelli e al personale della casa del clero, dove ho vissuto in tutto circa due anni, in mezzo a tanta attenzione e serenità.
Grazie a tutte le persone che ho conosciuto o anche solo incontrato. Ai bambini, veri prediletti del Signore e immagine del suo regno. Ai giovani, che ho guardato sempre con simpatia, anche se il mio carattere non è riuscito a comunicare tanto a loro, vera riserva di gioia per la comunità.
Alle famiglie, cuore della Chiesa madre e di Dio padre, per avermi ricordato che la mia vocazione era complementare alla loro. Agli anziani e ai malati, alla cui condizione sarei stato in seguito associato io stesso, per la loro presenza silenziosa, nascosta e feconda.
Ai consacrati, per la loro testimonianza umile e così generosa.
Grazie a tutti, insomma.
Ma anche e soprattutto perdono. Per le attese deluse, per le mancanze di fede e di carità, per gli errori e i peccati commessi e per le tantissime omissioni. Tutto vi chiedo di affidare con me alla misericordia infinita di Dio, unica mia speranza.
Ma un angolo speciale di questo mio scritto devo dedicarlo all’ultima parte della mia vita, quando il Signore mi ha chiamato in un modo nuovo a stare con lui sulla croce. Ritengo questa la parte più preziosa della mia esistenza, proprio perché la più difficile. Ringrazio il Signore di come si è servito di me, delle cose che su questa strada mi ha fatto capire, della possibilità che mi ha dato di stare vicino a tante altre persone più provate di me.
Ma ho il dovere di ringraziare in modo particolare tutti quelli che mi sono stati vicini in questo tempo di grazia e di fatica, che mi hanno fatto sentire il loro affetto, che mi hanno sostenuto con la preghiera. Tra queste persone, oltre ai miei familiari, ai quali ho dato tanto da fare, in modo tutto speciale i fratelli e le sorelle della comunità che mi ha accolto in casa sua.
Grazie per la pazienza infinita, per il sorriso costante, per l’esperienza di famiglia che vi ho potuto fare, per tutto quello che mi è stato insegnato sulla vita cristiana e in particolare sulla centralità della parola di Dio.
Senza le persone che ho avuto accanto non sarei riuscito a portare il peso di quello che mi è stato chiesto, fisicamente e ancor più spiritualmente. È stato il Signore stesso a starmi accanto attraverso di loro. Intendo comprendere nella comunità anche persone dell’assistenza, tutte veramente speciali.
Ringrazio poi tutto il personale sanitario e l’ASL di Rimini per il servizio di grande qualità che mi hanno reso.

[omissis]

Disposizioni per il mio funerale.
Desidero essere vestito con la mia veste talare, il camice bordato di bianco della mia ordinazione e la casula bianca della prima messa. In mano un crocifisso. Voglio una bara molto semplice e senza decorazioni, con sopra una croce vuota, simbolo della Risurrezione.
Desidero essere sepolto e non andare in un loculo.
Sul ricordino vorrei che ci fossero le parole del salmo 84 (83): “Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio. Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente. Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion”.
La liturgia sia possibilmente di festa, a discrezione del vescovo.
Come letture mi piacerebbero 2 Cor. 1,3-7 e Giov. 21,15-19, col salmo 84 (83).
Chiedo di evitare ogni spesa per i fiori.
Le offerte che si raccoglieranno in chiesa andranno naturalmente alla chiesa, ma avrei piacere che qualcuno si ricordasse anche dell’associazione AISLA e della ricerca scientifica sulla malattia.
Lascio a voi decidere in quale chiesa celebrare la messa di commiato e in quale cimitero seppellirmi.
Vi chiedo la carità della preghiera di suffragio soprattutto con la celebrazione della messa. Chiedo nel frattempo al Signore con tutte le mie forze il dono della perseveranza e la grazia di morire con il conforto dei sacramenti.
Offro la mia vita e la mia malattia per le necessità della chiesa, in particolare della nostra diocesi, per le vocazioni sacerdotali.

Se qualcuno non si è sentito ricordato in questo saluto, gli chiedo perdono e cercherò di rimediare dall’aldilà.
Spero e prego, non solo ora, ma lo farò anche dopo, di poterci ritrovare tutti nella casa del Padre che ci ama e ci attende.
Intanto vi abbraccio forte, di cuore.

Don Mauro Evangelisti